La confezione del riso ci fornisce tantissime informazioni. A partire dallo stesso metodo di confezionamento, che può essere sottovuoto (quindi la classica mattonella dura) o in atmosfera protettiva o modificata (confezione morbida, dove l’aria è sostituita da una miscela di azoto, ossigeno e anidride carbonica dall’azione inibente e batteriostatica). Questo comporta una data di scadenza, che è solitamente indicata come “consumare preferibilmente entro il” e intende a confezione integra e ben conservata. Il sacchetto di stoffa o juta non garantisce la stessa conservabilità del prodotto e delle sue proprietà organolettiche. Ma ora passiamo alle varietà e a come conoscerle e riconoscerle, in base all’uso che dobbiamo farne in cucina.
Per legge, sull’etichetta
Il marchio “Riso Italiano” dell’Ente Nazionale Risi garantisce al consumatore l’origine italiana della coltivazione (e non solo di produzione e/o confezionamento, di cui va comunque citato lo stabilimento in etichetta). Questo non compare sulle confezioni dei risi DOP e IGP, dove il territorio di coltivazione è già identificato dal relativo disciplinare e quindi dal marchio specifico. L’indicazione del luogo di coltivazione non è obbligatoria per legge, ma i produttori possono riportarlo volontariamente sull’etichetta, avvalorandolo anche con la certificazione di rintracciabilità della filiera agroalimentare.
Categorie e varietà di riso: la legge sul mercato interno
Dal 2013 le categorie merceologiche europee sono così divise: Tondo, Medio, Lungo A (da risotto e da parboiled) e Lungo B. Dal 1 settembre 2018 il riso commercializzato in Italia ha queste denominazioni, come da DL n°131 del 4 agosto 2017 che riforma la legge 325 del 1958. Il riso Tondo ha un granello piccolo e tondeggiante (ciò che chiamavamo Comune o Originario nella classificazione italiana del ’58). Il Medio è quello che si definiva Semifino. Il riso Lungo A ha chicchi di forma lunga e ovale, che rientrano nelle vecchie denominazioni Fino e Superfino, utilizzati per lo più per il risotto. Il Lungo B, dal chicco lungo, aghiforme e aromatico, è in gergo detto Indica.
In Italia è obbligatorio citare la varietà. Considerato che in Italia abbiamo più di 160 varietà di riso registrate, però, per semplificare sono stati creati dei sottogruppi di denominazione varietale, che raggruppano risi simili sotto un unico nome. Il risultato è che la legge non ci consente di sapere se stiamo comprando una varietà autentica o una varietà simile dello stesso gruppo. A meno che non venga riportata la dicitura “Classico”, per le autentiche. Arborio, Roma o Baldo, Carnaroli, Ribe, Vialone Nano e Sant’Andrea sono le denominazioni tradizionali consentite, tutti gli altri nomi di varietà vengono accorpati in questi, solo i capostipiti possono utilizzare la denominazione Classico.
La legge consente di miscelare varietà dello stesso gruppo nella stessa scatola, solo se le varietà non sono iscritte tra le tradizionali: devono però essere dichiarate tutte (es. risi tondi Balilla e Selenio) o nessuna (riso tondo).
Bianco o integrale?
Riso bianco e riso integrale sono due diversi livelli del processo di lavorazione del risone. Il riso integrale è infatti il risultato della sbramatura operata dallo sbramino: all’interno di questa macchina, due rulli in gomma (in passato, erano mortai in pietra), ruotano in senso concentrico a due velocità diverse e, per sfregamento, svestono il riso dalla prima buccia, detta lolla. Il risultato è controllato dal separatore paddy, che rimanda indietro i chicchi non “svestiti”.
Per ottenere il riso bianco (detto anche lavorato) si procede con la lavorazione del riso integrale. Per abrasione, pietre all’interno dei macchinari asportano altre pellicole del chicco, dette “pericarpo”. La lavorazione può essere più o meno profonda e portare al riso semilavorato o al riso bianco. Le polveri di scarto che si ottengono sono la “pula” e il “farinaccio”. In questo processo, a meno che la lavorazione non sia particolarmente delicata, si stacca anche la gemma, che quindi normalmente si conserva solo nell’integrale.
Il riso parboiled
La parboilizzazione è un trattamento idrometrico applicato sul risone. Il risultato è un chicco giallo e traslucido, estremamente resistente alla cottura e con valori nutrizionali fissati all’interno. Si tratta infatti di una precottura in autoclave d’acciaio dove, insieme al risone, si immette vapore a temperatura e pressione controllata. In questo modo, vitamine e sali minerali presenti nella parte più esterna del chicco migrano verso l’interno. Una volta parboilizzato, il risone viene essiccato e lavorato in riseria in modo tradizionale. Il riso parboiled ha l’amido gelatinizzato, quindi compatto e non soggetto all’aumento di volume: per questo non scuoce! La consistenza quasi vetrosa farà però anche penetrare meno i condimenti nel chicco.
I difetti del riso
Osservando un riso che rispetta tutti gli obblighi di legge, si possono comunque notare dei difetti. Il Decreto Ministeriale sulla denominazione delle varietà ne indica le tolleranze. Abbiamo difetti cromatici come striature rosse (tipiche del riso “crodo”, un infestante), macchie scure (attacco di funghi o batteri), colore giallognolo (fermentazione da calore) e gessatura (bianco opaco). Ma anche possibili difetti di forma, come rotture e grani spuntati (difetti di lavorazione) e forme diverse (disformità varietale).
Se abbiamo scelto un riso “perlato” (come Carnaroli, Roma, Arborio e Sant’Andrea) i chicchi devono presentare una parte bianca opalescente all’interno. Se abbiamo scelto una varietà di riso “cristallino” (come il Baldo) la perla non si deve vedere. La perla, per la sua porosità, assorbe bene i condimenti. In generale, un riso con imperfezioni visibili dà meno garanzie in cottura, mentre un riso visivamente omogeneo, con chicchi simili per forma e colore, si comporta in modo uniforme in cottura. Autore: Giulia Varetti
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