Avete mai provato a fare il sartù di riso? Si tratta di una preparazione, cucinata come un timballo, tipica della cucina napoletana. Questa ricetta racchiude il racconto della storia del riso al sud Italia e, in particolare, alla corte dei Borbone.
La ricetta del sartù
Il sartù di riso si prepara con riso superfino (per esempio l’Arborio), condito con ragù, polpettine di carne e salsiccia, uova sode, fegatini di pollo, piselli, mortadella, pancetta, funghi e formaggio (normalmente mozzarella fior di latte o provola). La prima cosa da preparare è il ripieno, che può contenere tutti gli ingredienti elencati o essere più povero. Sicuramente non mancano mai le polpettine, che devono essere piccole, impanate e fritte fino alla doratura e poi cotte nella passata di pomodoro.
Il riso che darà la forma al sartù deve essere cotto come un risotto al pomodoro senza brodo (con solo acqua calda) a fuoco bassissimo. Tolto dal fuoco, viene mantecato con uovo sbattuto e parmigiano, prima di essere steso su una teglia a raffreddare. Questo riso verrà utilizzato per rivestire uno stampo imburrato e spolverato di pangrattato (lasciando da parte una piccola quantità per chiudere il timballo) e riempito di strati alternati di sugo e mozzarella. Lo si cuoce al forno e lo si serve o in bianco o al sugo. (Segue dopo la foto)
Alla corte dei Borbone
Il riso entra nel Regno di Napoli nelle stive delle navi Aragonesi senza avere grande successo. Nella Scuola Medica Salernitana viene infatti prescritto solo come medicina in caso di problemi gastrointestinali. Alla corte settecentesca dei Borbone, però, nelle cucine di corte e nelle case aristocratiche, lavorano i “monsù”, dal francese “monsieur”. Con l’obiettivo di coprire il gusto, non amato, del riso, iniziano ad arricchirlo con salsa di pomodoro e vari ingredienti, dando vita al sartù. Anche questo nome deriva dal francese “surtout”. Da allora è uno dei piatti più importanti della tradizione di Napoli.
Nel 1793 la ricetta del sartù viene ufficialmente scritta e nel 1837 Ippolito Cavalcanti la inserisce nel suo “Cucina Teorico Pratica” dandogli la legittimazione che merita. Il piatto è così entrato nella tradizione di Napoli e del suo territorio. Così tanto che anche nelle canzoni tradizionali napoletane lo si descrive:
“O’ riso scaldato era na zoza
Fatt’a sartù, è tutta n’ata cosa
Ma quale pizz’e riso, qua timballo!
Stu sartù è nu miracolo, è nu sballo.
Ueuè, t’o giuro ‘ncopp’a a chi vuò tu:
è chiù meglio d’a pasta c’o rraù!”.
Autore: Giulia Varetti
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